Oggi voglio parlarvi del dottor Raimondo Leone.
Non tanto del professionista, dell’uomo che con competenza e passione svolge la sua vocazione e la sua professione, ma della persona. Perché in lui io vedo qualcosa che credo oggi manchi un po’ alla nostra società: quel pizzico di umanità, quel pizzico di empatia, quel desiderio autentico di guardare oltre le apparenze e oltre l’immediato.
È proprio questo sguardo che diventa capace di seminare speranza anche nei terreni più aridi, come quelli incontrati nella recente missione ad Abidjan, in Costa d’Avorio, dove la vita si consuma tra baracche, liquami e malattie che tolgono dignità e futuro.
Raccontare queste cose può sembrare scivoloso: il rischio è quello di fermarsi a belle parole, sentimenti di circostanza, riflessioni politicamente corrette. Ma non è questo il punto. Il punto è riconoscere e ringraziare chi, come Raimondo, sceglie di mettere da parte il proprio ego, la propria immagine, il proprio tempo, per investire amore e presenza a favore di chi non ha nulla.
Persone che ogni giorno combattono non per un successo, non per un titolo, ma per la sopravvivenza. Persone che non hanno nemmeno la possibilità di una vita decorosa, eppure resistono. E in quell’angolo di mondo, la presenza di chi porta cure, sostegno e un sorriso diventa luce.
La parabola evangelica del seminatore ci insegna che non tutti i semi daranno frutto: alcuni cadranno sul terreno sassoso, altri tra le spine, altri verranno portati via dal vento. Eppure qualche seme troverà la terra buona, germoglierà e darà un frutto abbondante.
Allora penso: anche se il terreno può sembrare sterile, anche se il gesto appare piccolo, insignificante, anche se sembra di lottare contro un’impresa impossibile, vale la pena lanciare quel seme. Perché qualcuno, prima o poi, attecchirà.
E se oggi proviamo a leggere questa parabola non solo in chiave spirituale ma anche algoritmica, quasi matematica, ci rendiamo conto che se ciascuno di noi riuscisse a far germogliare anche un solo seme di bene, e questo processo si moltiplicasse in maniera esponenziale, allora tra venti o trent’anni potremmo davvero contenere le conseguenze di ciò che oggi l’umanità sta facendo o disfacendo.
Il dottor Raimondo Leone, con la sua vita appagata, la sua professione riconosciuta, avrebbe potuto tranquillamente restare nel suo mondo. Invece sceglie di sporcarsi le mani, di chinarsi sulle ferite, di condividere il dolore degli ultimi. E in questo gesto, in questa scelta, io vedo non solo l’uomo, ma un messaggio per tutti noi: che è ancora possibile cambiare il corso delle cose, che non tutto è perduto, che basta un pizzico di umanità per accendere un mondo diverso.
Oggi, guardando ad Abidjan e a quella missione, non vedo solo povertà e sofferenza. Vedo semi di speranza lanciati al vento. Alcuni cadranno e moriranno, altri germoglieranno e porteranno frutto. E forse, se avremo la pazienza e il coraggio di continuare a seminare, scopriremo che i frutti non sono solo per chi riceve, ma anche per chi dona.
