Là dove nasce la speranza. Il Giubileo degli Ammalati e del Mondo della Sanità

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Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” (Is 43,19). Queste parole, tratte dal profeta Isaia e al centro dell’omelia pronunciata in Piazza San Pietro in occasione del Giubileo degli Ammalati e del Mondo della Sanità, sono risuonate forti e vive, come un abbraccio spirituale che avvolge chi soffre e chi si prende cura.

Nel cuore della Quaresima, mentre le strade della nostra quotidianità ci portano a riflettere sul senso del dolore, della fragilità, della dipendenza e della cura, la Chiesa ha aperto un varco potente nel cielo dell’umanità: un invito alla rinascita. Non una rinascita lontana nel tempo o utopica, ma una promessa che già germoglia nei luoghi del dolore e dell’amore condiviso.

Quando il dolore si fa scuola di umanità

Il Santo Padre, attraverso le parole di Mons. Rino Fisichella, ci ha ricordato che la malattia è una delle prove più dure della vita, eppure è proprio lì, tra le pieghe della sofferenza, che può germogliare un popolo nuovo. Non si tratta solo di sopportare, ma di scoprire nel limite ciò che è essenziale: camminare insieme, prendersi cura, farsi prossimi.

Nel letto di un malato si può vivere una vera conversione del cuore. Non è un luogo di fine, ma un altare di inizio, dove le maschere cadono e resta ciò che conta: la tenerezza, l’attenzione, l’amore autentico. “La camera dell’ospedale e il letto dell’infermità possono essere luoghi in cui sentire la voce del Signore”, ci ha detto il Papa, “che dice anche a noi: ‘Proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?’”.

Chi cura, genera luce

Un pensiero speciale è stato rivolto a tutto il personale sanitario – medici, infermieri, farmacisti, operatori sociosanitari – coloro che ogni giorno si fanno carico della fragilità altrui con competenza e umanità. Papa Francesco li ha chiamati “angeli”, strumenti visibili della presenza di Dio. Non solo tecnici della salute, ma custodi della speranza, capaci, con ogni gesto, di trasmettere senso, dignità, ascolto.

Curare, in questo orizzonte, non è solo “fare qualcosa per”, ma “stare con”, essere presenza che consola, che sostiene, che accompagna. Il Signore, ha detto il Pontefice, ci invita a rinnovarci nella gratitudine, nella misericordia, nella consapevolezza che ogni giorno è dono, ogni paziente è una storia, ogni cura è anche carezza.

La forza di chi soffre

Il messaggio più luminoso di questo Giubileo è forse rivolto proprio a loro, ai fratelli e sorelle ammalati, coloro che ogni giorno vivono il mistero della fragilità. Il Papa ha voluto condividere anche la sua personale esperienza di infermità, parlando con il cuore: “È una scuola – ha detto – in cui impariamo ad amare e a lasciarci amare, senza pretendere e senza disperare”.

È difficile, sì. Ma proprio per questo è una via alta. Una via in cui si può imparare a fidarsi, ad affidarsi, a lasciarsi curare non solo nel corpo ma nell’anima, nella dignità, nella spiritualità. E in questo cammino, ognuno può diventare segno della presenza viva di Dio, che non si nasconde, ma che abita le nostre ferite.

Un nuovo popolo, un nuovo inizio

Il Giubileo degli Ammalati non è stato solo un evento liturgico. È stato un tempo di grazia, una chiamata a costruire una società più umana, capace di accogliere la sofferenza non come un peso da rimuovere, ma come un linguaggio profondo dell’umano.

Papa Francesco ci ha chiesto di non relegare i fragili ai margini, ma di riconoscere in loro il cuore stesso della comunità. Di non avere paura della malattia, ma di incontrarla con lo sguardo dell’amore. Di non cercare soluzioni facili, ma di percorrere con coraggio la strada dell’empatia e della cura.

Ed è stato proprio alla fine della celebrazione che il momento si è fatto ancora più intenso e indimenticabile: Papa Francesco ha fatto una sorpresa ai presenti, apparendo in carrozzina sul sagrato di Piazza San Pietro. Con passo lento ma con cuore ardente, ha benedetto tutti i fedeli, regalando loro un istante di pura emozione, testimonianza vivente di una fede che, anche nella fragilità, non si arrende ma si dona.

Un’apparizione che ha commosso profondamente tutti i presenti, un gesto semplice e solenne insieme, che ha reso quel momento indimenticabile. Il Santo Padre, in convalescenza, ha voluto esserci. Ha voluto dire, con la sua sola presenza, che la vicinanza ai sofferenti non è un dovere, ma una vocazione.

E allora sì, germoglia qualcosa. Proprio ora. Nei cuori che si aprono. Nelle mani che si stringono. Nei silenzi condivisi. Nei gesti piccoli e nei sacrifici nascosti. Nelle corsie degli ospedali e nei laboratori. Nelle farmacie e nelle case. Germoglia il bene, la speranza, la vita.

Perché, come ci ha ricordato il Papa, una società che non sa accogliere chi soffre, è una società crudele. Ma una società che si fa carico del dolore altrui, è una società che ha futuro.

Avatar Silvia Francescangeli

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